Una sommese in Camerun

di Claudia Martinelli

 

10822213_10205633824111553_1618680802_nChe ci fa una sommese in Camerun? Si abbronza. Risposta stupida giusto per attirare l’attenzione. La risposta seria è: coglie un’occasione.

L’anno scorso sono incappata nel bando del Servizio Civile all’estero, ho spulciato i vari progetti e,  tra le mani, me ne sono rimasti due: uno in Camerun e uno in Perù. Riguardo il secondo progetto, è stato presentato da una ONG di missionari che ho frequentato per anni in Italia e quindi ho pensato: se devo fare un passo verso l’ignoto meglio farlo bene. Con tanto di tuffo e doppio carpiato. Mi sono candidata, colloquio e…sono partita con un’ONG romana, l’AVAZ, verso un piccolo centro nel Sud del Camerun, Sangmèlima.

Lavoro a tempo pieno in un complesso scolastico comprensivo di scuola materna, scuola primaria e di un centro d’accoglienza per bambini a rischio. Ci vivo anche! La casa degli “espatriati” si trova all’interno della recinzione, immersa nel verde e su una piccola collina strappata alla foresta tropicale. Convivo con: un ragazzo partito con me, il responsabile del progetto e il rappresentante-paese dell’ONG. Tutto questo è Villaggio Fraternité.

Cosa faccio? Tutto quello che mi viene chiesto. Contabilità, amministrazione, laboratori vari al centro d’accoglienza,rapporti con l’ONG in Italia…tutto! Dall’andare al mercato a comprare le verdure fino al pubblicizzare le attività del Villaggio sulla pagina Facebook. Oggi, per esempio, ho digitalizzato la contabilità di Novembre, ho rifornito il mobiletto del bureau della scuola di materiale scolastico, scattato foto e scritto un post su Facebook, aggiornato le informazioni sui bimbi del Centro D’Accoglienza  per l’ufficio in Italia (il CDA si finanzia grazie a un sistema di adozioni a distanza) e cambiato una bambina di 3 anni perché ha fatto la “pupù” nei pantaloni.

Non esiste una giornata-tipo al Villaggio Fraternité, e fortunatamente non esiste un fine giornata-tipo visto che quello di oggi è finito con la pupù.

Da qualche giorno è iniziata la stagione secca, si muore di caldo, caldo umido. L’inconfondibile terra rossa si alza lungo la strada anche se procediamo a 20 km/h. Sarà così fino a Marzo. Quando giri in auto tutti – e ribadisco tutti – si fermano ai lati della strada e ti guardano. Probabilmente è una vecchia reticenza colonialista. Quasi tutti ti gridano “la blanche” o “ntaan”, che in Bulu significa appunto “bianca”. Molti ti chiedono dei soldi. Tutti quelli che chiedono dei soldi passano gran parte della giornata a bere birra e vino di palma al bar di quartiere, passano la vita a guardare la gente vivere ed evidentemente a ricordare loro il colore della pelle.

I Bulu sono un’etnia appartenente alla grande famiglia dei Bantu e vivono perlopiù in questa regione. All’inizio credevo che popolassero tutto il Camerun , poi ho scoperto che nel Paese ci sono circa 200 etnie diverse e quella dei Bulu è tra le più piccole. I Bulu sono napoletani dentro. Hanno un modo di relazionarsi e di scherzare molto simile al nostro, hanno un temperamento caldo. Peccato che siano degli eterni scansafatiche. In una società classista ed etnicamente variegata come il Camerun, i Bulu non possono fare altro che coltivare la terra, vivere di piccolo commercio o emigrare in Gabon. Ma i sorrisi, i loro sorrisi, sono unici. Non si dosano col contagocce come da noi; sono spontanei, gratuiti e coinvolgenti. E i bambini, quelli sono come una flebo di glucosio iniettata in vena. Sono immensamente buffi e ingenui. Mi chiedono cos’è un neo, se mangio con le bacchette come i cinesi e provano a fare le trecce ai peli sulle braccia (non sono così pelosa eh, ma per loro è una rarità). Credono a qualsiasi cosa tu gli dica. Uno dei miei responsabili, Valerio, ha le braccia muscolose e li ha convinti che dentro le braccia ha i serpenti che si muovono e che le rendono dure. Ti chiedono affetto con gli occhi. Vogliono essere abbracciati, presi in braccio e accarezzati. Chiedono attenzioni. Le famiglie sono molto numerose e i bambini spesso fanno i lavori più pesanti a casa: vanno a prendere l’acqua al pozzo, raccolgono la legna per il fuoco. Spesso vengono trascurati, maltrattati, abbandonati dai genitori. C’è da dire che qui i bambini sono tanti: quasi la metà della popolazione ha meno di 18 anni. I bambini del Villaggio mi stanno insegnando a parlare in francese, è divertentissimo comunicare con loro.

Questo paese è pieno di contraddizioni e di modi di fare che non capisco e che a volte non voglio capire. Si parla della morte come di qualsiasi altra cosa, lo stupro è socialmente tollerato, la corruzione è molto diffusa, conta molto l’apparenza. È difficile viverci senza lasciarsi scivolare i drammi addosso. Ma, allo stesso tempo è meraviglioso. Gli odori genuini, i colori e le fantasie sgargianti degli abiti tradizionali, il divertirsi con poco.

Ho tanta voglia di partire, di tornare nella mia terra, ma inizio già a sentire la nostalgia di questo posto. Perché in un modo o nell’altro l’Africa ti strega, ti accoglie come una mamma distratta ma ti trattiene appena vuoi allontanarti dalla sua sottana.

Claudia Martinelli

 

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