La defenestrazione di Marino


“Il re è nudo”1: per l’interpretazione del fatto mariniano la parabola discendente della favola di Andersen è la miglior conclusione che si possa dare per il sindaco romano, ma è un’affermazione che si presta anche ad un sottile gioco dal doppio significato: chi è nudo? Sicuramente Marino, vittima dello sciacallaggio mediatico di un certo (ex) modo di fare giornalismo e di un partito, il Pd che ha dovuto osteggiarlo per non vedere mostrare troppo; o nudo è lo scenario politico della città romana, assunta come exemplum morale e fisico di un’Italia mafiosa e allo sfascio che prova nell’ultimo impeto di forza del democristiano Renzi a nascondere sotto il tappeto corruzione e mafia propinando come simbolo dell’illegalità assoluta spese per cene personali che (forse) non sarebbero state restituite?

Mettere in ordine i fatti dell’ “affaire” Marino (ci perdoni Dreyfus2 per la citazione indebita) è difficile quando un fatto in sé non sussiste, o meglio, quando un fatto sussiste ma non nella sua giusta misura, ed assume nell’Italietta, che per stigmatizzare la propria mediocrità necessita di un giustizialismo di proporzioni fasciste, il peso di un peccato assoluto peggio dei presunti peccati che servirono a mettere in croce Cristo. Marino non restituisce quasi ventimila euro e il Papa, che a differenza di Ponzio Pilato non se ne lava le mani ma, oscurando anni e anni di lotte per la non invadenza in politica da parte della Chiesa, dice l’ultima su di lui, lo processa definitivamente dando in pasto all’immaginario collettivo di un popolo ancora troppo visceralmente legato alla Chiesa, l’ultimo agnello sacrificale dello spietato massacro tra i due poteri forti.

La città di Roma è nel caos, ma è un caos accresciuto ad hoc per la carneficina mediatica, un caos che si presenta come diretta conseguenza di un modo di fare politica di Marino, un modo giusto che ha rotto equilibri decennali e che quindi mostra gli strascichi iniziali di disequilibrio e di riassestamento: Marino è vittima di un partito che lo ha trovato scomodo perché da troppi anni le mani in pasta sulla città non possono e non vogliono essere tolte dal finto rottamatore Renzi come era stato dai suoi stessi predecessori. Svariate sono le cose ottime fatte dall’ormai ex sindaco di Roma: ha chiuso la discarica di Malagrotta dopo trent’anni, evitando così ulteriori sanzioni dalla comunità europea, ha risparmiato centoventi milioni ogni anno, ha portato la raccolta differenziata al 43%, ha pedonalizzato i fori e il tridente, ha riattivato il teatro dell’Opera, ha scoperchiato come nessuno prima di lui aveva fatto, il fenomeno più che longevo di Mafia Capitale portando ogni settimana al procuratore Pignatone tutti i documenti presenti al Comune, ha cacciato l’ Amministratore Delegato di Ama arrestato poi per Mafia Capitale, ha mandato via dall’Atac tutti gli imbucati di Alemnno (circa mille tra parenti ed amici di esponenti del centrodestra) messi lì senza un vero merito, ha riportato tra le strade della città circa trecento spazzini che avvalendosi della legge 104 (possibilità di assentarsi dal lavoro tre giorni al mese per assistere ad un disabile in famiglia) senza averne bisogno, producevano cifre di assenteismo vicine al 20%, ha riaperto i lavori della metro C (macchina mangiasoldi dal 2006 circa), ha portato le truppe ad Ostia, vera fortezza, da anni, proprio di Mafia Capitale. Per non parlare dell’impegno verso la cultura, dell’impegno verso edifici pubblici e strade, dell’impegno nei confronti dei diritti civili, creando all’ufficio del Comune di Roma il primo registro per le unioni civili tra persone dello stesso sesso (mentre in Vaticano si celebrava il Sinodo straordinario sulla famiglia). Era, il suo, uno di quei modi di fare politica ormai dimenticati, senza platealità, in sordina, i cui risultati –come tutto ciò che mette solide radici- si sarebbero visti nel tempo presentando una Roma libera da quella patina e dall’odore di vecchiume tutto italiano. Ma, -tanto per cambiare- l’Italia non era pronta alla civiltà, alla modernità, all’onestà.
Un disco rotto che non smette mai di girare.

Giusy Aliperti

[1]Nota⇑ : H.C. Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, 1837. La fiaba racconta di un re vanitoso che si fa imbrogliare da due ciarlatani fintisi sarti: il tessuto sottile e trasparente usato per creare i nuovi abiti, invisibile alla vista di persone stolte e poco intelligenti, in realtà non esiste. Così il re, convinto di non essere egli stesso all’altezza di vedere il nuovo vestito, si presenta nudo tra le vie della città, tra lo stupore del popolo che si reputa anch’esso poco intelligente per notare la stoffa pregiata, ma un bambino rompe gli indugi, urlando sulla nudità del re. [La fiaba si è prestata negli anni a diverse interpretazioni da parte della cultura occidentale]

[2]Nota⇑: Nel 1894, Alfred Dreyfus, ufficiale di artiglieria alsaziano di origine ebrea viene accusato dall’esercito francese (di cui è capo Maggiore), di fare spionaggio a favore dell’impero tedesco. [ “ Ma fu soprattutto il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l’Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata. Allora, grazie soprattutto alla libertà di stampa che smascherò l’infame complotto, quei rigurgiti furono soffocati. Ma la vittoria dell’antirazzismo, che lì per lì sembrò definitiva, fu, come sempre quella della Ragione, soltanto momentanea.”, I. Montanelli, Una storia esemplare, in La Voce, 16 ottobre 1994.]

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Giusy Aliperti

Laureata in Filologia Medievale e Moderna. Appassionata lettrice e aspirante precaria.

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