Vite negate

Riscrivo lo stesso rigo dieci volte e cancello: cerco le parole, le pesco nei meandri, nei ricordi della mente ma nessuna mi sembra adatta. Nessuna di esse mi sembra piena del dolore, della sciagura, della tragedia, del disumano che il più delle volte fingo di dimenticare ma che ora più che mai balza agli occhi, occupa l’animo senza scampo. C’è una verità lancinante- che nell’horror vacui di questa società sempre più protratta verso l’atto dell’oblio -sgomita per farsi posto: è la sopravvivenza darwiniana che si è impossessata di una cospicua parte del genere umano. La terribile presunzione che ci siano vite che meritino più di altre, la certezza assoluta che quel che si ha, che certi cieli azzurri, certi porti sicuri della propria esistenza non siano frutto del caso ma ci siano dovuti. Quel mostruoso rituale quotidiano di ringraziare Dio per essere i suoi prescelti al banchetto dei fortunati a discapito di qualcun altro.

Settecento è un numero come un altro che diventa scandaloso, pesante per chi resta in vita, perché è un numero che ci portiamo sulle spalle, che si aggrappa alle ossa per non lasciarci più: è il peso di essere al mondo che per contrappasso ci colpisce. Perché per esistere, per esserci oggi, bisogna farlo a scapito degli altri, di chi va, di chi viene inghiottito dal mare. L’uomo è stato capace di rendere innaturale perfino la morte, il più naturale e logico dei meccanismi umani. L’ha sottratta all’indefinito, al caso, per farla sua e come tutte le cose fatte proprie annientarla con una ferocia senza limiti.

I settecento cadaveri nel canal di Sicilia speravano in un approdo felice, in una vita diversa. Lo avevano fatto a prezzi altissimi con i trafficanti. Ma i figli di un dio minore cresciuti a pane e sacrificio hanno trovato la morte: quando l’uomo è ridotto a cosa dall’altro uomo è impossibile venirne fuori. Settecento persone che volevano essere libere di far l’amore, di gioire, di lavorare, di studiare, che cercavano il proprio posto nel mondo, il cielo sotto cui riconoscersi, un qualche diritto a esistere degnamente, si perdono in un mare che li accompagna verso una morte in cui il suono delle onde diventa culla, paradossalmente uno dei primi atti con cui si attesta la propria venuta al mondo.

Il post tragedia assume contorni raccapriccianti che facciamo fatica a voler vedere: è la guerra tra poveri che si è innescata, è l’altro assunto a nemico assoluto, ad ostacolo da eliminare in fretta e furia perché è solo così che si certifica la propria di esistenza. In questo vortice in cui siamo scivolati, nell’impossibilità di uscirne, ci restano le mani macchiate dal sangue, dal sudore, dallo sporco di chi se n’è andato. Nella colpa collettiva che ci colpisce senza scampo, non resta che immaginare le vite che sarebbero potute essere ma non sono state, tracciarne i contorni, disegnarne i volti, tingerne i gesti, sognare coi loro occhi quel poco di felicità che gli era dovuta per cui avevano attraversato l’Inferno sulla terra.

Giusy Aliperti

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Giusy Aliperti

Laureata in Filologia Medievale e Moderna. Appassionata lettrice e aspirante precaria.

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