La Teodicea cos’è?

Da alcune settimane è apparso nelle librerie e nelle edicole il libro di Umberto Veronesi (1925), oncologo di fama mondiale, “Il mestiere di uomo” (Einaudi) in cui l’illustre scienziato dichiara espressamente che il cancro è la prova che Dio non esiste.

Così dice nell’opera in questione: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio. Così mi sono allontanato dalla fede. Quella in Dio, non nella vita. Perché di fronte all’esperienza fisica – e non più metafisica del dolore – ogni fiducia in un essere soprannaturale viene meno, e l’uomo riscopre la sua finitezza da cui nessun ente superiore lo può salvare. Nessun Dio può riscattare l’uomo dalla sua sofferenza, nessuna verità rivelata può lenire il dolore di due genitori che perdono un figlio malato di tumore”.

Ovviamente questa “confessione” ha suscitato molte polemiche e filosofi, teologi e psichiatri non si sono sottratti al confronto sul tema, scrivendo numerosi articoli su quotidiani e riviste.

In realtà il problema sollevato da Umberto Veronesi non è nuovo nel dibattito teologico – filosofico ed è presente in esso da alcuni secoli col nome tecnico di “teodicea”, che è parola di origine greca composta da “teos” che significa “Dio” e diche” che significa “giustizia”. Praticamente, detto in parole povere, la teodicea è il tentativo teologico – filosofico di “giustificare Dio di fronte al problema del male e della sofferenza dell’uomo, soprattutto quella innocente.

Gottfried Wilhelm von Leibniz

Gottfried Wilhelm von Leibniz

Il termine fu introdotto nel dibattito culturale dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) nell’opera “Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal” (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male).

In realtà già l’Antico Testamento, con il libro di Giobbe, che gli esegeti (studiosi della Bibbia) fanno risalire al X sec. a. C., affronta questo tema della sofferenza dell’innocente.

Giobbe è un uomo saggio e felice che viene improvvisamente e ripetutamente colpito da disgrazie familiari e patrimoniali. In un dialogo con suoi tre amici viene affrontato il perché Dio permetta la sofferenza del giusto. Il nucleo in poesia antico sostiene che Dio è troppo distante dall’uomo perché questi possa capirlo e giudicare il suo operato, lasciando aperta la speranza di un “redentore” che riscatterà il male. L’epilogo aggiunto tardivamente sostiene, in apparente contraddizione col corpo centrale, che Dio retribuisce in terra il male subito dal giusto.

Come si può vedere quindi fin dai primordi del pensiero la nostra specie si è posta il problema: se esiste un Dio “onnipotente”, creatore del cielo e della terra, come mai l’uomo giusto soffre? Passi per il malvagio e l’ingiusto, ma perché anche il saggio e colui che opera per il bene deve soffrire?

Questa domanda, che da sempre ha interrogato la coscienza umana, se la sono posti anche Epicuro (342 a. C. – 270 a.C.) ed i suoi seguaci. Vediamo cosa rispondono con un ragionamento che è passato alla storia del pensiero col nome di “paradosso di Epicuro”.

Gli dei non vogliono il male ma non possono evitarlo (gli dei risulterebbero buoni ma impotenti, non è possibile).

Gli dei possono evitare il male ma non vogliono (gli dei risulterebbero cattivi, non è possibile).

Gli dei non possono e non vogliono evitare il male (gli dei sarebbero cattivi e impotenti, non è possibile).

Gli dei possono e vogliono; ma poiché il male esiste allora gli dei esistono ma non si interessano dell’uomo.

Questa è la conclusione che Epicuro considera vera: gli dei sono indifferenti alle vicende umane e si chiudono nella loro perfezione.

Al problema della sofferenza umana ha dato un contributo notevolissimo il cristianesimo.

Il profeta Gesù, addirittura considerato dalla successiva elaborazione teologica, il figlio di Dio, “consustanziale” al Padre e seconda persona della Santissima Trinità, parla con accenti commossi della “Provvidenza”.

Vediamo cosa egli dice nel Vangelo di Matteo (6, 26 -30):

“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede?”

Gesù è fortemente convinto che esiste un “Padre celeste” che si cura degli uomini, anzi addirittura pensa alle loro necessità pratiche: il cibo ed i vestiti.

Però l’uomo continua a soffrire, e con l’ingiusto soffre anche il giusto!

Come epilogo della sua missione di annunciare all’umanità il Regno di Dio, al profeta galilaico è riservata un’orribile morte in croce.

Durante la terribile agonia i vangeli ci fanno sapere di oscure e misteriose frasi che il “figlio di Dio” avrebbe pronunciato:

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbondonato?” (Matteo e Marco).

Il “giusto” per eccellenza, il “buono” per antonomasia soffre anche lui!

Il mistero del dolore si infittisce sempre più!

San Paolo, il vero fondatore della religione cristiana secondo alcuni studiosi, ha un vero e proprio “colpo di genio” per giustificare Dio rispetto al problema del male e del dolore!

Il creato, compreso l’uomo, era uscito “perfetto” dalle mani di Dio e quindi non ci sarebbe stata alcuna sofferenza: non ci sarebbe stata la morte, non ci sarebbero state le sciagure che continuamente affliggono l’umanità!

Chi ha “guastato” questo piano originario di Dio?

E’ stato l’uomo stesso, con i suoi capostipiti, Adamo ed Eva, che ha disubbidito a Dio, introducendo nel mondo il peccato e quindi la morte!

Dio doveva ricevere una “riparazione” all’offesa che gli era stata fatta!

Quale “riparazione” migliore e più efficace che l’immolazione sulla croce di colui che era lo stesso figlio di Dio?

Ma per l’umanità le cose continuano a non cambiare e l’uomo continua a soffrire le più indicibili pene!

Ricordiamo cosa scrisse un grande poeta italiano, Giacomo Leopardi (1798 – 1837) nel “Dialogo della Natura e dell’Islandese”:

“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.

Altro che Dio Provvidenza, uccelli del cielo e gigli del campo!

Per il grande recanatese noi siamo immersi in una Natura ostile ed indifferente che assolutamente non si “cura” degli uomini! Addirittura, se dovesse avvenire l’estinzione dell’umanità, essa non si accorgerebbe nemmeno di averlo fatto! Alla sofferenza non c’è risposta!

Vogliamo concludere questa breve riflessione, giusto lo spazio che ci può concedere un articolo, con quello che anche la teologia cristiana e cattolica ha dovuto ammettere in ordine al problema di come si possa conciliare un Dio onnipotente che sia allo stesso tempo anche buono ed operi nei confronti dell’uomo in termini di “Provvidenza” personale.

E lo facciamo citando un teologo di nuova generazione, Vito Mancuso (1962). E’ l’esito “triste” ma “intellettualmente onesto” ed inevitabile di un percorso di pensiero che ha dovuto ammettere che Dio non “funziona” in termini di “Provvidenza” nei confronti dell’uomo e del mondo.

Così in “La vita autentica” a pag. 163: “La legge che presiede al farsi del mondo non è pensabile come provvidenza personale, bensì come logica impersonale che nel tendere all’armonia non si cura dei singoli. So bene che per qualcuno, abituato a pensare in termini di provvidenza personale, questa concezione può risultare fredda e inaccettabile, ma non se la deve prendere con me, bensì con chi ha stabilito che le cose nel mondo debbano andare così. E che vadano così non ci sono dubbi: basta aprire gli occhi e guardare, a partire dagli oltre ottomila bambini che ogni giorno vengono al mondo segnati da una delle migliaia malattie genetiche, fino a incidenti, fatalità, malattie, sciagure naturali che colpiscono come capita, senza guardare in faccia nessuno…Nel mondo io vedo una logica, perché una logica c’è, ma la dichiaro impersonale, perché un’attenzione alla singola persona non c’è”.

Più chiaro di così!

 

Vincenzo Caputo

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Vincenzo Caputo

Nato a Somma Vesuviana (NA) nel 1955. Laureato all'Università "Federico II" di Napoli in Filosofia con una tesi su Giulio Girardi, teologo e filosofo, impegnato a coniugare le ragioni della fede religiosa con la dottrina marxista. Dopo la laurea, si è inscritto alla Facoltà di Teologia "Duns Scoto" di Nola (NA), conseguendone il diploma. Per diversi anni è stato insegnante di religione cattolica nei licei. Attualmente insegna materie letterarie presso l'Istituto comprensivo "Radice" di Massa di Somma (NA). Coniugato con Rosetta Buonaguro da oltre trent'anni e padre di due figli, Armando e Viviana. Dopo anni di frequentazione e di impegno cattolico nei movimenti ecclesiali (in particolare il Movimento dei Focolari, fondato nel 1943 da Chiara Lubich), ha aderito al programma di ricerca dell'evoluzionismo di stretta osservanza darwiniana. Ultimamente il suo impegno intellettuale è rivolto ad affrontare su basi razionali l'annoso ed appassionante problema del confronto tra fede e scienza, propendendo decisamente per quest'ultima, come spiegazione "elegante" ed efficace dell'origine della vita sul nostro pianeta.

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