Cinquant’anni dopo Sartre: Patrick Modiano

Tra i numerosi fili che la letteratura dipana, capita qualche volta che strade parallele diventino perpendicolari e che autori diversi, per uno scherzo del destino, si incontrino. Ad incontrarsi quest’anno, nel piccolo cerimoniale di ricorrenze che si suol adibire per rendere più comprensibile e banale l’arte, sono stati Patrick Modiano e Jean Paul Sartre: perché il primo vince il Nobel a cinquanta anni (cifra tonda e doveroso tributo dei letterati) dal rifiuto del secondo che suggellò così – se mai ce ne fosse bisogno- il proprio status di autore, filosofo e pensatore unico.Modiano

Patrick Modiano, sessantanove anni, parigino, sconosciuto al di là dell’entroterra francese, sorprende i bookmakers e lascia nuovamente a bocca asciutta il giapponese Murakami e l’americano Philip Roth. Sorprende di Modiano che, ancor più della Munro, vincitrice nel 2013, sia completamente o quasi sconosciuto nel resto d’Europa e del mondo. In Francia invece, la notorietà arriva presto ed ha un mentore d’eccezione nella letteratura del novecento: Raymond Queneau. L’autore francese, che tentò di unire il sapere scientifico a quello letterario, matematico, romanziere e poeta, membro dell’Oulipò, conosce il giovane Modiano a quindici anni e lo introduce negli ambienti letterari del tempo. A ventitre anni, sotto il segno di Gallimard, la più importante casa editrice francese, Modiano pubblica il suo primo romanzo. Quarantasei anni di fortune e successi, che lo vedono vincitore del premio Goncourt  nel 1978 con “Rue des boutique oscures”.

«Per l’arte della memoria con cui ha evocato i più inafferrabili destini umani e svelato la vita e il mondo sotto l’Occupazione», proclama l’Accademia.

Protagonista indiscussa dell’opera di Modiano è la memoria, collettiva e individuale che l’uomo rievoca continuamente per sottrarsi all’oblio. Una memoria, che senza la perfetta ciclicità proustiana, senza le epifanie joyciane, viene ricercata nella storia. Nella storia dell’occupazione tedesca della Francia, che Modiano non visse ma volle gli fosse raccontata dai genitori. Nella storia degli antenati, perché le radici restano- per l’uomo che ha superato la crisi della perdita di valori novecentesca- baluardi inespugnabili. I suoi personaggi sono sempre alla ricerca di qualcosa: la giovane Dora di “Dora Bruder” rivive grazie ad un articolo sul giornale, Jean nell’ “Orizzonte” cerca la sua amante Margaret perennemente in fuga, “Pedigree” lascia alla storia la vita dei suoi genitori, del padre ebreo di origini italiane, scampato ai campi di concentramento, e della madre, ballerina e attrice perennemente in viaggio. Ai francesi, vincerlo, il Nobel, riesce meglio: il 22 ottobre di cinquant’anni fa Sartre vi rinunciava, annunciandolo con una lettera all’Accademia circa un mese prima (la leggenda narra che non sia mai stata aperta),ma ciò non impedì che fosse comunque premiato per «la sua opera ricca di idee e piena di spirito di libertà e ricerca della verità». Se c’è una cosa che Sartre ci ha insegnato è che non si può non scegliere: avrebbe potuto accettare il Nobel, il denaro derivatogli dalla vittoria, diventare un’istituzione, veder legittimata la propria arte con una simbolica e più potente corona d’alloro. Ma non lo fece, scelse la strada opposta, perché l’arte che in lui significava diretta e incessante manifestazione del proprio pensiero, non era e non doveva aver bisogno di legittimazioni. “La  letteratura è il solo specchio dentro cui la vita, riflettendosi, giunge per un momento a dire se stessa”, e l’arte vive una vita propria, che scardina i pensieri e le istituzioni, che rifà il verso alla realtà data,che scompiglia i piani di chi il mondo lo vuole lasciare così com’è. Il Nobel non poteva essere accettato perché Sartre si batteva per la consistenza pacifica di due mondi allora geograficamente divisi, per la riuscita del socialismo e perché tutto questo- per lui normale amministrazione- non necessitava di medaglie.

Per l’uomo di Modiano che si inabissa nel vortice della memoria, c’è l’uomo di Jean Paul: lo smarrito uomo qualunque che sente il peso di esistere ma non può sottrarvisi, gli “esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi” che pagano sempre lo scotto di essere al mondo. Dal perenne rigurgito di Antoine Roquentin ne la “Nausea” allo smarrimento del protagonista dell’ “Infanzia di un capo” Lucien, vicino all’accertare la propria esistenza, ma smarritosi sotto il peso delle proprie azioni, ai condannati a morte del “Muro” che riescono a sentire finalmente la distanza dalla vita quando la consapevolezza della morte gli entra nelle ossa; tutto in questi personaggi è solitudine assoluta, inconsistenza di fondo, assenza di certezze e appigli.

Eppure il paradosso di Sartre era proprio questo: nessun’uomo era salvabile dal trascinarsi la zavorra di essere al mondo, dal peso di un laico peccato originale, ma egli credeva, con l’ingenuità di un bambino strabico e un po’ burbero, che l’umanità potesse essere comunque salvata.

 

Giusy Aliperti

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Giusy Aliperti

Laureata in Filologia Medievale e Moderna. Appassionata lettrice e aspirante precaria.

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