Due donne “negate” a confronto: Santa Teresa d’Avila e la monaca di Monza
La recente ricorrenza del martirologio romano della festività di Santa Teresa d’Avila (1515 – 1582) ha suscitato non poche polemiche sui social network quando è stato messo in evidenza un passo della sua autobiografia con corrispettiva analisi psichiatrica. Il passo oggetto di discussione è questo:
“Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento.” (Santa Teresa d’Avila, Autobiografia, XXIX, 13).
Ad una lettura anche non troppo profonda, si capisce che la mistica spagnola sta immaginando un’estasi sessuale che le tristi condizioni in cui soggiacevano le donne del secolo XVI negavano a chi, per le più svariate ragioni, si trovava ad essere invischiata in un percorso mistico-religioso. Lo scritto ha anche ispirato la celebre scultura al Bernini, in cui la santa è colta con viso estasiato, tradendo la chiara origine di tale godimento. Queste note ci consentono di parlare della sessualità delle donne del ‘500 come una “realtà negata”. Il sesso assolutamente non doveva essere vissuto come realtà gratificante, ma solamente come atto riproduttivo a cui le donne erano destinate da un piano divino. Il piacere era tutto al maschile e guai se una donna aveva di queste fantasie. Ecco perché Santa Teresa è costretta a fingere di ricevere da Dio una transverberazione, che nel linguaggio tecnico-mistico significa che un essere umano sta ricevendo sul proprio corpo le stesse piaghe che subì Gesù Cristo durante la crocifissione. È, questo, un fenomeno molto comune tra i cattolici. Vari personaggi più o meno noti sostengono di averla avuta: padre Pio, San Francesco d’Assisi, Gemma Galgani, Natuzza Evolo e diversi altri. In realtà, come negli anni ’30 del secolo scorso mise bene in evidenza padre Agostino Gemelli (quindi un religioso), occupandosi del frate di Pietrelcina, è un fenomeno d’isteria che comporta tali e tante somatizzazioni da identificarsi con il soggetto amato, in questo caso Gesù Cristo. Ovviamente la Chiesa cattolica si è sempre ben guardata dallo “smascherare” questi fenomeni isterici e le è ben convenuto di farli passare come realtà sovrannaturali.
Come confronto naturale con la santa spagnola viene spontaneo pensare alla monaca di Monza, personaggio indimenticabile creato dalla fantasia di Alessandro Manzoni, ma non troppo, perché certamente il grande romanziere si è ispirato ad una donna realmente vissuta nel XVII sec., Marianna de Leyva y Marino (1575 – 1650) che assunse il nome di Suor Virginia. Nella trasfigurazione romanzesca questa donna si chiama Gertrude e viene costretta dal padre, nobile di lignaggio non certo di cuore, ad una monacazione forzata. Il suo genitore fu così crudele perché si appoggiava ad una terribile legge contro le donne, che assegnava tutte le proprietà paterne al primo figlio maschio. Questa legge veniva denominata “del maggiorascato”. A questa poveretta fin da piccola fu fatto il lavaggio del cervello e a tutti i costi doveva entrare in convento per non frazionare il patrimonio della famiglia. Con una pressione psicologica terribile, il padre (Manzoni dirà che non osa chiamare “padre” una persona che compie tale abominio) riesce a mandarla in convento. In questo luogo di pene e sofferenze per la povera Gertrude, che voleva vivere le gioie della vita e della maternità, si prende la sua “rivincita”. Approfittando del fatto che, per le sue origini nobili, le era riservato un’ala del convento, riesce a conoscere un uomo e a divenirne l’amante. Lapidaria e “bigotta” l’espressione del Manzoni quando ci fa sapere che la monaca di Monza ha intrapreso una relazione sentimentale con un uomo: la sventurata rispose. Ecco, io correggerei profondamente il Manzoni: avrei detto che questa donna aveva preso piena coscienza dei suoi diritti femminili e stava vivendo fino in fondo quell’amore che una società crudele e maschilista negava all’altra parte del cielo.
Due donne “negate”, quindi, Santa Teresa e la monaca di Monza: la prima “fingeva” un amore soprannaturale, quando era evidente il suo desiderio spasmodico di vivere intensamente una relazione carnale; la seconda, sfidando le convenzioni ed i pregiudizi del tempo, vive fino in fondo una relazione reale con il suo innamorato, pagando con una terribile pena (fu murata viva) il suo andare “controcorrente”.
È quasi ovvio aggiungere che le mie simpatie vanno alla monaca di Monza, antesignana della liberazione sessuale delle donne, che ha trovato il suo apice negli anni ’60 del secolo scorso; Santa Teresa è un personaggio troppo scontato, troppo “piegato” alle convenzioni del tempo, che vedevano come “sovversivo” ogni pieno appagamento delle donne.
Vincenzo Caputo
Vincenzo Caputo
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