Fine-vita: di diritti, libertà ed altri luoghi impossibili

Eutanasia

Eutanasia: dal greco “eu- bene, thanatos-morte”. Letteralmente: “La buona morte, la dolce morte”, la fine della vita senza sofferenze.

La vicenda della giovane Brittany Maynard ha riaperto, negli USA e nel mondo, il dibattito sull’eutanasia. La ventinovenne, colpita da cancro al cervello in fase terminale, ha deciso il primo novembre di mettere fine alla sua vita. Questo, solo l’ultimo dei casi che toccano una questione troppo ipocritamente taciuta: l’ eutanasia (collegata all’accanimento terapeutico).

Nel 2006, in Italia, a far clamore fu il caso Welby: Piergiorgio Welby era malato di distrofia muscolare progressiva, una patologia che porta all’atrofizzazione dei muscoli. Quando la sua situazione si aggrava, gli viene praticata, contro la sua volontà, una tracheostomia (un foro nella trachea) che lo costringe a “vivere” attaccato ad un respiratore. Welby, dopo anni, chiede che qualcuno gli stacchi il respiratore e lo lasci morire. Dopo mesi di polemiche e di ricorsi in tribunale, nel dicembre 2006 il medico anestesista Mario Riccio esegue la procedura e lascia morire Welby. Riccio, inizialmente accusato di omicidio del consenziente, poi viene scagionato da ogni accusa.

Nel 2009, storia ben diversa è quella di Eluana Englaro, che in seguito a un incidente automobilistico è rimasta in stato vegetativo persistente per 17 anni. Non essendoci alcuna possibilità di ripresa, il padre della ragazza, Beppino Englaro, cerca di ottenere per anni il rispetto delle sue volontà: Eluana non avrebbe mai voluto vivere in quel modo, lo aveva espresso chiaramente in una situazione analoga riguardante un suo amico. Englaro chiedeva quindi ai giudici di sospendere l’unica cosa che teneva in vita la figlia, l’idratazione e l’alimentazione artificiale. Dopo la ricostruzione delle volontà della ragazza e la determinazione della situazione irreversibile, la Corte d’Appello di Milano nel luglio 2008 acconsente alla procedura. Ma sarà solo nel febbraio 2009, tra aspre polemiche, che ad Eluana Englaro sarà sospeso l’”accanimento terapeutico”.

Oggi di eutanasia non si deve parlare, non bisogna rivendicarla come un diritto. No, non è etico! E allora la si relega, intenzionalmente, in quella gabbia di temi sensibili in cui tutto deve rimanere fermo e insabbiato in espressioni nebbiose e ipocrite o in contraddizioni insanabili. Si dovrebbe, invece, inserire il tema nella rete di diritti indispensabili e cogenti, si dovrebbe ricordare di menzionare la libertà individuale (art. 13 Cost), l’art. 32 della Costituzione (“[…]Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), unico vero baluardo contro la casta catto-oscurantista. Perché l’eutanasia non è che un’espressione di un principio semplice e difficile da contestare: sulla mia salute e sulla mia vita (purché sia libera e dignitosa) devo decidere io ed io e solo io posso decidere che non è dignitoso sopravvivere a tutti i costi, legato a macchine o costretto a soffrire. E chi potrebbe altrimenti decidere per me?  L’eutanasia di cui parliamo oggi dovrebbe garantire, a chi non vuole più vivere in condizioni che giudica insopportabili, di poter scegliere per sé.

Nessuna visione della malattia e della salute, nessuna concezione della sofferenza e correlativamente della cura, per quanto moralmente elevata o scientificamente accettata, può essere imposta dallo Stato o dall’amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto pubblico o privato, alla cognizione che della propria sofferenza e della propria cura ha il singolo malato (in un ordinamento che ha nel principio del rispetto della dignità umana il suo fondamento).
L’interruzione del trattamento sanitario non è soltanto un preciso adempimento di un obbligo giuridico, quello di interrompere cure non volute in presenza di un espresso rifiuto del paziente, ma anche preciso adempimento di un più generale dovere solidaristico, che impone all’Amministrazione sanitaria di metter fine a tale trattamento, senza cagionare sofferenza aggiuntiva al paziente, laddove egli non voglia più accettarlo, ma non sia tecnicamente in grado di farlo da sé.

Mi vengono in mente le ultime parole di Kafka, agonizzante, al suo medico: “Uccidimi, altrimenti sarebbe un assassinio”. Perché morire è ancora vivere, aiutare qualcuno a mettere fine al dolore significa umanizzare la morte.


«
 Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. […] Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. » Piergiorgio Welby.

 

Marta Pignatiello.

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Marta Pignatiello

Marta Pignatiello, 24 anni, studentessa in giurisprudenza. "un foglio bianco, molta solitudine, qualche strappo al cuore e forse una guerra o due" Alda Merini.

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